Conoscere se stessa…abbracciare tutto. L’archetipo Estia.

11150292_10205544483682965_7912944817107544307_nTra i principali archetipi che “governano” la psiche, soprattutto femminile c’è Estia, forse la meno famosa, ma non per questo la meno importante…anzi! Una curiosità è che Estia sembrerebbe essere l’unica dea dell’Olimpo che non è stata coinvolta in guerre o litigi vari. E’ considerata una dea vergine, come Artemide ed Atena, e ricordiamo che nell’antica Grecia il termine ”vergine”, voleva significare anche una donna considerata libera e che non apparteneva a nessun uomo. Estia fa il voto di castità e ciò evita una guerra olimpica, quindi tale rinuncia garantisce la pace. Come a dire che rinunciando all’”intrico” del mondo (olimpico) possa portare la pace interiore e un senso di purezza. Estia diventa la dea del focolare, cioè in termini intrapsichici del “fuoco interiore”, addomesticato se così si può dire, ma anche protetto e alimentato…quanto basta, come insegnano gli antichi alchimisti. D’altronde, solo se il focolare di una casa era stato consacrato ad Estia, questo luogo era considerato sacro, una vera casa. Psicologicamente parlando, vuol dire che ognuno nella propria casa (corpo), deve addomesticare, proteggere e consacrare questo fuoco interiore alla dea del lume interno. Il centro di ogni casa, di ogni tempio, di ogni edificio pubblico era il focolare sacro, a lei dedicato. Quest’archetipo femminile è tanto grandioso e profondo , quanto è raro trovarlo rappresentato, rispetto a tutte le altre dee. Zeus la ricompensa riservandole il primo dono di ogni sacrificio rituale. Estia è una figura che basta a se stessa. La sua attenzione è rivolta all’interno e dà una sensazione di completezza e del poggiare su se stessa. Una donna Estia non si attacca emotivamente alle cose terrene, come ad esempio, le proprietà, gli status simbol, ecc. L’archetipo di Estia, forse è quello che più di tutti rende possibile una libertà interiore. Il fatto che Estia sia l’unica divinità dell’Olimpo non adorata in sembianze umane (ma solo come fuoco e luce) svelerebbe il suo aspetto redento, anche se potenzialmente problematico allo stesso tempo. Quindi Estia non possiede una “persona”, le manca la natura individuale a livello di caratteristiche. Ma cosa potrebbe voler dire? Forse che una donna, che si identifichi con questo archetipo abbia compreso che in fondo tutto è “uno” e che noi tutti proveniamo dalla stessa sorgente, alla quale ritorneremo, e che quindi tutti siedono intorno allo stesso fuoco. Nel linguaggio di Jung, potremmo dire che una donna Estia ha conosciuto il suo se stessa (che appunto abbraccia tutto) superando il suo ego ( che tra l’altro è sostenuto dalle delimitazioni e pregiudizi nei confronti degli altri). In ultima analisi, forse questo archetipo ci insegna (uomini e donne) che la felicità, quella autentica, da non confondere con la gioia, non si trova fuori, sulle strade del mondo, ma soltanto nel proprio cuore. Infine, credo che questo archetipo possa meglio di tutti gli altri, rappresentare simbolicamente la “grazia”, se con questa intendiamo un atteggiamento che sia il risultato di un dialogo armonico tra il fuoco interiore, il cuore e la testa.

Dott. Marco Franceschini

La voce degli inferiores

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“…Noi siamo umani non tanto in virtù delle nostre mete ideali, quanto per il difetto proprio della nostra inferiorità…Una volta ammesso che l’anima parla con la voce degli inferiores, di coloro che sono sottomessi, tenuti in basso e indietro, come i bambini, le donne, gli antenati e i defunti, gli animali, ciò che è debole e ferito, ripugnante e brutto, le ombre giudicate e imprigionate; una volta ammesso questo, il compito di ogni psicoterapia sarà allora quello di rimanere in contatto con questi inferiores, e da essi lasciarsi muovere ” (James Hillman)

La coscienza afroditica…una via verso la conoscenza

veronese_venere In questa opera di Paolo Caliari, detto il Veronese (1585), la bellezza di Venere molto spesso viene rappresentata attraverso il suo guardarsi nello specchio, aiutata dal piccolo Eros. Tale visione o interpretazione, ha spesso confuso l’ipotetico osservatore che ne ha tratto la inevitabile conclusione sull’effimera vanità della Dea. In genere, l’osservatore è convinto che Venere stia osservando il suo riflesso; invece, proprio perché l’osservatore vede il volto di Venere nello specchio, vuol dire che la dea sta  guardando a sua volta l’osservatore medesimo.                                                                    E’ noto che l’effetto Venere è un fenomeno della psicologia della percezione.
Alcuni esempi di tale effetto si ritrovano nei dipinti “Venere e Cupido” di Velázquez, Venere allo specchio di Tiziano e Venere allo specchio del Veronese.
In definitiva,  se la dea ti osserva usando la sua apparente vanità e incontestabile bellezza, se necessita di questa strategia, ciò indicherebbe che la bellezza nasconde il desiderio di conoscenza; in questo  l’amore è il suo complice, (Eros), il quale “riflette”, attraverso il desiderio dell’altro, il proprio bisogno di individuazione e forse anche di conciliazione tra la persona e l’Anima Mundi. Come a dire che senza l’amore e il desiderio dell’altro, non può esserci né bellezza né conoscenza!

Dott. Marco Franceschini

Guerra e amore. L’aspetto estetico della guerra.

467px-David_Marte_disarmato_da_VenereIl 30 Luglio 1932 Einstein scriveva a Freud:”…esiste un modo per dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e alla distruzione?”Il quesito posto dal grande scienziato fa riflettere sul quesito del perché la guerra. In questo articolo, lungi da me la presunzione di rispondere, ma sicuramente quella di una riflessione a partire da un grande maestro e fondatore della psicologia archetipica, James Hillman. Così, parlare di guerra vuol dire anche parlare di pace e disarmo che però non avrebbe senso se non si penetra prima profondamente nell’immagine archetipica della guerra.  Non è possibile comprendere l’attrazione che l’uomo ha da sempre verso la guerra se non ci si cala nella prospettiva marziale. In questo stato psicologico bisognerebbe calarsi in modo altrettanto ritualistico, come per un matrimonio, oppure nel pronunciare una diagnosi di pazzia, cioè bisogna “arruolarsi psicologicamente”. In questi casi pronunciamo la stessa parola: “Vi dichiaro marito e moglie”; dichiarazione di pazzia, così come va dichiarata la guerra. Per comprendere il fenomeno innato e archetipico della guerra, si potrebbe utilizzare il consiglio dettato dalla psicologia, cioè approcciandosi al fenomeno in modo empatico, così da poter essere pensato e immaginato senza pregiudizi! Per conoscere veramente un fenomeno non possiamo certo girarci intorno, piuttosto bisogna entrarci dentro e andare fino in fondo, fino ad assumere una visione “in trasparenza”. Con lo spirito del Ta’Wil, secondo il quale tutte le cose vanno ricongiounte alla loro fonte/immagine originaria, possiamo giungere all’archetipo originario: Marte/Ares.  D’altronde, come afferma Hillman:”Nessun fenomeno psichico può essere veramente distolto dalla sua fissità se prima non spingiamo l’immaginazione fino al suo cuore..”.  E poi, a partire dalla Bibbia stessa troviamo immaginari di guerre, battaglie e condottieri, per arrivare al Nuovo Testamento dove l’Apocalisse rappresenta la ricapitolazione che culmina nella grande battaglia dell’ Armageddon. Anche in aspetti più elevati dell’uomo, come nell’induismo e nella filosofia platonica si rende necessaria all’umanità una classe di guerrieri con particolari virtù. A livello archetipico amore e guerra sono stati abbinati a Venere e Marte, Afrodite e Ares; tale mito lo si ritrova negli slogan: “fate l’amore non la guerra”; “in amore e in guerra tutto è permesso”. Questi slogan però mettono in opposizione la coppia Marte e Venere creando una separazione, fatto ormai ovvio nella nostra società! Tornando a Marte, si può scorgere paradossalmente un certo amore per la vita anche se  dalla prospettiva della battaglia e ciò non dovrebbe risultarci strano se teniamo a mente la legge dell’enantiodromia.  E poi, a proposito del lato estetico ovvero della bellezza che si relaziona con la guerra (Marte-Venere) non è forse vero che nelle caserme, nelle sfilate d’onore, si presta molta cura per le camice stirate, i colletti e polsini perfetti, la divisa impeccabilmente bella e stirata con tanto di spille dorate e scarpe lucidatissime? Non è forse vero che nell’immaginario collettivo i cadetti in libera uscita mostrano i loro abiti pavoneggiandosi un po’? Quelli che nel gergo americano vengono chiamati: “i nostri ragazzi”. Non si dice, il fascino della divisa? Avendo fatto il militare lo posso testomoniare in prima persona. Ma allora, questi bellissimi soldati che sembrano uscire da una sfilata di moda, sono figli di Marte o di Venere? Io dico che sono figli di entrambi, anche se la nostra società letteralizzante ha tentato di dividerli (fate l’amore non la guerra). Forse bisognerebbe riflettere più attentamente sugli aspetti estetici di Marte! Per non parlare degli accessori e dei lustri che caratterizzano, lance, coltelli, fucili, sciabole, e così via. E poi, pensiamo a tutte le ricompense per aver ucciso: medaglia all’onor militare, Croce d’oro della Regina Vittoria, Croce di guerra; pensiamo alla musica: il silenzio, l’alza bandiera, inno degli alpini, tamburi, trombe, bande militare e così via. Inoltre, la storia militare è un atelier di abiti e accessori:gli stivali di Wellington, il Montgomery, il colbacco napoleonico, i berretti verdi, le giubbe rosse fino ai caschi blu. Per non parlare delle maniere e dei ritualismi degni del tempio di Afrodite: “Signor si”, lo sbattere dei pidi, lo stare sull’attenti, il segnare il passo e così via. Le grandiose mura e le fortezze “severamente belle” costruite dal Brunelleschi, da Leonardo, da Michelangelo. Cavalli bardati, tacche sul calcio del fucile, stemmi colorati, lettere dal fronte, poesie. Tutto così ordinato e tirato a lucido; lo scudo di Achille che porta inciso il mondo intero. Insomma la guerra appare in forme gloriose, come nell’impero romano. Sicuramente la guerra è caratterizzata da uomi bellicosi, ma non violenti. Questa appartiene alla delinquenza. Come affermato sempre da Hillman:”Il nostro odio per la guerra ci fa usare violenza contro la guerra stessa. Il desiderio di porre fine alla guerra fu una delle principali motivazioni del progetto di Los Alamos e della decisione di Truman di sganciare la bomba su Hiroshima e su Nagasaki, una bomba per salvare vite umane, una bomba per fermare le bombe,, come l’idea di una guerra per porre fine a tutte le guerre…I nostri discorsi ipocriti su argomenti tipo “fattori di pace” riflettono sinceramente il nostro modo di pensare. La guerra è male, sterminiamo la guerra e manteniamo la pace con la violenza: spedizioni punitive, attacchi preventivi, mandiamoci i marines!! Maggiore potenza di fuoco significa pace più certa. Noi mettiamo in scena la cecità del dio cieco (Mars caecus, lo chiamavano i romani; e anche Mars insanus, furibundus, omnipotens). L’apocalisse non è necessaria alla guerra. Marte vuole la battaglia, non l’annientamento e nemmeno la vittoria, nike appartiene ad Atena, non a Marte!…Infine, mentre il nuclearismo produce una sorta di “intorpidimento psichico”, sbigottimento, ambiguità, inconsapevolezza, Marte opera esattamente in direzione contraria. Conferisce intensità ai sensi e acuisce il sentimento di solidarietà nell’azione: quella di vivificazione piena di energia che i romani chiamavano Mars Nerio e Mars Moles, molare, massiccio, che fa succedere le cose: la mobilitazione. Marte offre una risposta al senso di disperazione e di disorientata impotenza che proviamo di fronte alle armi nucleari le quali risvegliano in noi la paura (Fobos, compagno o figlio di Marte). Marte è l’istigatore, l’attivista primordiale, in altre parole è il dio degli inizi, il segno dell’ariete. I suoi mesi sono marzo e aprile, Mars Apertus, l’aprire, il far succedere le cose.

Dott. Marco Franceschini (tratto da J. Hillman)

La coscienza della ferita.

A II 1703 taiteilija: Simberg, Hugo nimi: Haavoittunut enkeli ajoitus: 1903 mitat: 127x154 cm pääluokka: maalaus museo/om.: AT ; LV kokoelma: Ahlström kuvanro: 26001 valokuvaaja: Aaltonen, Hannu VTM, 1993 skannaus: laite:AgfaScanT5000+/PS6.0.1/ tå resoluutio: 300ppi

Un individuo puer, psichicamente, nasconde la sua ferita: poiché essa rivela il segreto che indebolisce questo stile di coscienza. Ha paura di sentire la propria incapacità; perché, quando, alla fine della storia, la ferita viene scoperta, essa uccide l’individuo in quanto puer. La ferita è la nostra propria mortalità. Ogni complesso ha il proprio sintomo, ha il suo tallone di Achille, il suo varco che introduce nell’umanità tramite un punto vulnerabile e tremendamente penoso, sia esso la capigliatura di Sansone o il cuore di Sigfrido.

La terapia deve toccare questo punto; deve smuoverci dalla bella ferita e introdurci nel dolore reale attuale. L’archetipo, va ricordato, generalizza, perché gli archetipi sono universali. Dunque, metti il chiodo al posto giusto! Entra nella menomazione, nello zoppicare, nel sanguinare; sonda proprio quell’organo – fegato, spalla, piede o cuore. In ogni organo c’è una potenziale scintilla di coscienza, e le pene liberano questa coscienza, rendendo consapevoli dello sfondo archetipico di quell’organo che, prima di essere ferito, aveva solo funzionato fisiologicamente come parte della natura inconscia. Ma ora la natura è ferita. La deprivazione della funzionalità naturale dà la consapevolezza della sua funzione. Ci accorgiamo per la prima volta del suo sentimento, del suo valore, del suo regno operativo. La limitazione indotta dalla ferita porta alla coscienza l’organo – come se conoscessimo una cosa soltanto quando la perdiamo, quando è limitata e in declino; come se la conoscenza data dalla morte fosse la conoscenza di ciò che una cosa psichica è in sé, del suo vero significato e della sua importanza per l’anima. Una coscienza “morente” viene liberata dalla ferita.

 

Dott. Marco Franceschini (Tratto da J. Hillman, Saggi sul puer)

Immagine: L’angelo ferito, di Hugo Simberg.

UN CATECHISMO DEL CORTEGGIAMENTO?

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“…Bada soltanto che i baci rubati non feriscano i teneri labbruzzi, che non possa dolersi della loro irruenza. Chi ha raccolto dei baci se non raccoglie il resto si merita di perdere anche quello che prima gli era stato concesso. Quanto mancava dopo tanti baci a raggiungere il colmo dei desideri? Ahimè non fu pudore questo ma solamente rozza incapacità.Potresti dirla violenza,ma è una violenza gradita alle ragazze che spesso dicono d’aver concesso quanto loro desiderano a forza di dinieghi. Chiunque sia stata violata da un assalto improvviso d’amore ne gode,l’audacia vale quanto un regalo….”
Marco F. (Ovidio,L’arte di amare)

Sogno e realtà.Una questione di confine.

FB_IMG_1449750757888Vorrei tentare di abbozzare una risposta al seguente quesito: chi stabilisce il confine tra sogno e realtà? Mi rendo conto che ogni risposta, ammesso sia possibile rispondere, riflette l’equazione personale ed epistemologica di ognuno di noi. Non ho la pretesa di rispondere, semmai di lanciare un sassolino in uno stagno che vedo come un oceano. Innanzitutto il confine viene stabilito dalla nostra capacità di movimento psichico che ci consente di avere una prospettiva mercuriale e non dicotomica della vita e dell’universo. In questo senso l’archetipo funzionale sarebbe Ermes. Per esempio, l’epistemologia occidentale distingue due forme dell’essere e del conoscere, due mondi: il mondo sensibile (fisico e materiale) e il mondo intellegibile (la conoscenza intellettuale, se così si può dire), insomma, un pensiero dicotomico e polare, fatto di opposti. Sappiamo che gran parte del pensiero junghiano, ruota intorno a questa visione di opposti. Ma vorrei spingermi oltre, perché secondo me, questa visione pone un serio problema, ossia, come mettere in relazione queste due forme o universi? A tal proposito ci viene in aiuto la filosofia persiana con il terzo universo o forma del conoscere, ovvero il mundus imaginalis, il mondo immaginale e dei corpi sottili, dove è vero, manca la fisicità ma è pur sempre presente una forma. Riassumendo abbiamo: 1) una forma sensibile, percepibile con i cinque sensi; 2) una forma intellegibile, percepibile con il pensiero; 3) forma immaginale che mette in relazione le prime due. Questo mondo immaginale, intermedio rappresenta in qualche modo un universo di corrispondenze (aventi una figura, un colore, estensione, profumo, risonanza) quindi fatto ad immagine e somiglianza del mondo fisico che però non rientra nella fisica pura, non hanno fisicità, ma allo stesso tempo differente dal mondo intellegibile puro, fatto di concetti e non di forme, mentre nel mondo immaginale è come se fossimo in quel confine dove le forme intellegibili prendono corpo e forma, laddove allo stesso tempo le forme sensibili perdono il loro peso dato dalla fisicità, si spiritualizzano, pura materia senza il fisico. Questo mondo noi lo viviamo anche nei sogni, soprattutto durante la fare R.E.M. Ovviamente parlare del mundus imaginalis vuol dire parlare di tutte le immagini archetipiche e mitologiche che solo attraverso la cosiddetta “immaginazione attiva” si possono vedere in relazione tra loro. Per comprendere questo bisognerebbe com-prendere il significato del ta’wil che nella filosofia sufista persiana vuol dire: ricondurre qualsiasi cosa alla sua origine, in altre parole al suo archetipo. Allora, con lo spirito del Ta’wil, dove ogni immagine può essere ricondotta alla sua fonte, nel mondo di “Hurqalya”, potremmo far risalire questa visione dicotomica, SOGNO O REALTA’, nel mundus imaginalis, dove il “corpo si spiritualizza” e allo stesso tempo “lo spirito prende corpo”, così da liberare l’uomo stesso dall’egemonia della visione polare e dicotomica dell’Io, riunendola in una sigizia? Da questa premessa epistemologica, ritengo che il confine tra sogno e realtà lo stabilisce Ermes (da erma, le pietre miliari che segnavano i confini delle strade) ovvero la nostra capacità immaginativa attraverso la quale potremmo essere in grado di riconoscere che la realtà della vita diurna non è affatto più reale di quella notturna. Ermes si muoveva con disinvoltura tra il mondo celeste e divino, e quello infero, attraversando quello terreno. E’ come chiedersi se è più reale il giorno o la notte e cercare di tracciarne il confine. La notte oscura per l’anima, la possiamo vivere anche durante il giorno e al contempo immergersi in immagini solari di notte!! Inoltre, chi può dimostrare che la psiche/anima appartiene all’uomo? Personalmente, tale convinzione mi sembra una forzatura e presunzione da parte dell’uomo occidentale che manipola la natura a sua “immagine e somiglianza”. No, è l’uomo che appartiene alla psiche/anima, così come vi appartengono le piante, gli animali, le acque, ecc. Allora potremmo forse dire che l’anima/psiche vive la propria realtà nei sogni sotto forma immaginale, ma si materializza nella vita diurna, e nella concretezza di quest’ultima. Allo stesso modo, l’Io del sognatore che vive nello spazio-tempo diurno si dissolve nel sogno per vivere nella realtà dell’anima…

Dott. Marco Franceschini

Psicodramma analitico-archetipico di gruppo.

parnaso_mantegnaLa parola psicodramma deriva da psiche (anima) e dramma (azione). Lo psicodramma analitico è una metodologia psicologica finalizzata allo sviluppo personale, che consente all’individuo di esprimere, attraverso l’atto parlato e il gioco recitato, le diverse dimensioni della sua vita psichica. lo psicodramma è una delle tecniche più versatili, impiegabile in moltissimi contesti. Come metodologia terapeutica può essere usato in qualsiasi tipo di setting, dall’individuale alla coppia, al gruppo; può essere molto utile per la comprensione delle dinamiche affettive e lavorative delle istituzioni, delle organizzazioni, delle scuole, per la formazione del personale e come strumento di supervisione in disparati ambienti di lavoro (scolastico, sanitario, sociale, aziende).

Lo psicodramma, che si svolge in gruppo in un ambiente protetto e riservato, coperto da segreto professionale, permette di sviluppare strumenti e strategie non solo per far fronte al sintomo, ma anche e soprattutto per individuare gli immaginari che ne sono alla radice.

Lo psicodramma analitico-archetipico è una psicoterapia di gruppo che si propone di favorire nei singoli partecipanti e nel gruppo stesso, inteso come unità complessa di diverse identificazioni, la creazione di uno spazio psichico contenitivo. Durante l’esperienza del gruppo l’utilizzo del gioco permette di delimitare e conoscere la dimensione inconscia, le relazioni e le identificazioni, rendendole più fluide e consapevoli. Il gioco è utilizzato per ri-vitalizzare le esperienze personali, che vengono messe in scena attraverso sogni o frammenti significativi della vita dei partecipanti. I vari teatri situazionali della psiche, che spesso restano tanto intrecciati tra loro (ma anche a volte divisi e/o confusi), possono generare proiezioni dei vissuti emotivi sugli scenari reali che vengono deformati consentendo la ripetizione delle esperienze come traumatiche e producendo l’emersione delle varie sintomatologie psichiche e somatiche. Tali confusioni e deformazioni proiettive vengono smascherate e viste in tutta la loro evidenza grazie al potente strumento della drammatizzazione; i copioni obsoleti e non funzionali vengono riformulati creativamente grazie anche al contributo della ricca dinamica gruppale che fornisce nuovi punti di vista e immaginari alternativi. La riflessione e l’insight sono favoriti, inoltre, dalla possibilità di entrare in contatto con parti ancora ignote di sé, e dalla loro rinnovata relazione vengono generate nuove e più ampie possibilità di esistenza.

Lo psicodramma analitico-archetipico, oltre ad essere una delle principali psicoterapie per migliorare la capacità di gestione delle emozioni, è soprattutto una metodologia ideale per favorire il processo di individuazione, inteso come emersione e differenziazione di quanti più personaggi possibile che abitano la nostra psiche totale e che possono essere dapprima conosciuti e successivamente armonizzati, grazie all’utilizzo di una metodologia che lavora continuamente tanto sul gruppo concreto quanto su quello intrapsichico, affinché entrambi funzionino come tale e nessuno dei membri di ciascun gruppo venga trascurato, schiacciato o soffocato, liberando dalla sofferenza associata a tali situazioni. Nello psicodramma analitico non si curano disturbi psichici, ma si liberano dalla loro etichetta di malattia i modi di essere della psiche conscia e inconscia, personale e collettiva (nel linguaggio junghiano), che prendono forma e si nutrono grazie alla metodologia dell’amplificazione, che dà più ampio respiro, fa sentire meno soli, riscalda al calore della cultura e riporta la psiche nella sua propria acqua, restituendo alle nostre modalità assurde e folli, neglette o bizzarre, la loro naturale base immaginale. Grazie all’ambiente protetto del setting terapeutico, il mistero della psiche cessa di essere spaventoso, e diventa un mondo affascinate da esplorare. Tutte le energie spese a reprimere, non sentire, fuggire da noi stessi possono essere di nuovo messe a disposizione dell’individuo per realizzare il suo destino.

L’utilizzo della tecnica dello psicodramma all’interno della cornice teorica archetipica parte dal presupposto che le immagini sono le forme basilari della vita psichica, aventi origine autonoma. La psiche è fatta di immagini, la mia vita è immaginale e l’io è un’immagine tra le altre. Le immagini non dipendono dal soggetto, bensì il soggetto ne fa parte e ne deriva il proprio comportamento. Questo viene espresso nel teatro del sogno in cui il soggetto partecipa come un personaggio tra gli altri e dialoga con essi. La drammatizzazione è da considerare una realtà simile a quella onirica, una realtà di immagini che lavora sulla psiche strutturandola. La terapia come drammatizzazione ha l’effetto di dare forza alle immagini. “Nel dramma dei nostri sogni, tutti noi, anche se facciamo parte del pubblico, siamo sulla scena, attori tutti quanti, tutti quanti persone oniriche” (J. Hillman, Il sogno e il mondo infero)

“Il pezzo che viene messo in scena non vuole essere solo guardato con imparzialità, ma costringe alla partecipazione. Se lo spettatore capisce che è il suo dramma che si sta rappresentando sul palcoscenico interiore, non può restare indifferente alla trama e al suo scioglimento; si accorgerà via via che gli attori si succedono e che l’intreccio si complica. […] Si sente perciò costretto, o viene incoraggiato dal suo analista, a prendere parte alla recita.” (J. Hillman, Le storie che curano)

Dott. Marco Franceschini (tratto da Atanor, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia –  Scoppito (Aq))

 

Il perdono, il sale della saggezza

                                                                                                     Perdonare non vuol dire per forza che dobbiamo dimenticare il torto perdono11subito, anzi, è ricordo del torto subito, trasformato all’interno di un contesto più vasto, ovvero, come ha detto C. G. Jung, il sale dell’amarezza trasformato nel sale della saggezza. Una saggezza , Sofia, che, una volta ancora, rappresenta un contributo del femminile al maschile, in grado di fornire quel contesto più vasto che la volontà da sola non sa raggiungere. La saggezza di cui parlo è quell’unione di amore e necessità, dove finalmente il sentimento può riversarsi liberamente nel nostro destino, riconciliandoci con ciò che ci è accaduto. Così come la fiducia conteneva il seme del tradimento, il tradimento contiene in sé il seme del perdono.

Dott. Marco Franceschini (tratto da J. Hillman)