La paura nelle donne. Il mito di Meti.

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Questo stralcio di articolo, estrapolato da un lavoro scritto un anno fa, nasce per indagare  quale figura archetipica e mito potesse in qualche modo esprimere, seppur metaforicamente, la condizione di sofferenza psichica che riscontravo in quel periodo in diverse donne durante il lavoro analitico. Così, grazie anche alla lettura di G.Paris, sembrerebbe che il mito che per certi aspetti (non tutti!) darebbe ragione di una paura diffusa ancora in molte donne, di questa paura archetipica, di essere giudicate, eliminate, rifiutate, potrebbe essere quello di Meti. Recita così Esiodo nella Teogonia: “ Zeus, re degli dèi, per prima prese in sposa Meti, CHE SA PIÙ DI TUTTI GLI DÈI E DEGLI UOMINI MORTALI. Quindi, “METI SA”, ma Zeus, su consiglio di Gaia e di Urano, quando Meti stava per partorire Atena, la inghiottì, come atto di prevenzione. Nel senso che sarebbero nati figli molto saggi e intelligenti, data la madre e questo poteva diventare una minaccia per il suo potere. “Così ambedue l’avevano consigliato perché il regale potere nessun altro avesse, al posto di Zeus, fra gli dèi sempre esistenti, da essa infatti era fatale che nascesse una prole assai saggia”.Come a dire che la saggezza è superiore al potere? A proposito di Meti, la Paris G. fa rientrare questo mito nella cosiddetta mentalità patriarcale. Dove l’uomo/Zeus inghiotte la moglie perché troppo intelligente, forte e per cui temibile. Quindi, l’intelligenza femminile diventa “underground”, clandestina, poiché Meti resta chiusa nel ventre di Zeus. E’ comprensibile che questa intelligenza per sopravvivere sia diventata discreta, si sia rifugiata nell’intimo delle donne. Forse, proprio perché è un intelligenza “del ventre” che, anche se non è riservata alle donne, le caratterizza ovunque esse siano escluse dalla logica Apollo-Zeus. In virtù del meccanismo di difesa, conosciuto come identificazione con l’aggressore (S. Ferenczi) esse rinunciano alla loro “Meti” , sacrificandola in onore di Zeus?

Dott. Marco Frnceschini

Riferimenti bibliografici:                                                                                                                                                                   Esiodo, 1984, Teogonia, BUR, Milano, 2012, pg. 119.                                                                                                                   Paris G., 2005, Hermes e Dioniso, Moretti & Vitali, Bergamo, 2005, pp.43-44.

 

 

Attacchi di panico. Il riscatto di Pan?

10703518_10204136444002853_4038152249104242329_nIl dio che nella mitologia rappresenta meglio quelli che noi conosciamo come attacchi di panico, non poteva che essere Pan, il dio della natura. Una divinità per metà animale e per metà con sembianze umane; talvolta brutale e precipitoso sia negli atteggiamenti di terrore che di desiderio, soprattutto nel suo approccio alle ninfe. In poche parole rappresenta l’istinto della SPONTANEITA’. Questa rimane sia un’idea che un’esperienza, impossibile da definire, in quanto per definizione non lo è. Poi, la spontaneità è qualcosa di imprevedibile (proprio come un attacco di panico), che si auto-genera costantemente, cioè si auto-recicla e in questo senso è un’immagine molto ecologica; d’altronde Pan è pur sempre il dio della natura! Pan, questo dio della natura e della spontaneità che in ultima analisi significa una radicalizzazione della libertà. E a chi non fa paura la libertà? Questa fa paura innanzitutto perché evoca il caos, dove non ci sono riferimenti definiti, non ci sono volti, nomi; eppure questo caos è la condizione necessaria per iniziare qualsiasi azione. E’ dal caos che si genera qualsiasi cosa. Spesso soffochiamo la nostra spontaneità per evitare di transitare in quel caos, l’ignoto che genera ANGOSCIA. Ma il significato di angoscia deriva anche da Ananke, la dea della necessità, una dea senza volto. Come afferma Hillman: “ Se davvero l’angoscia appartiene ad Ananke, s’intende che non può essere padroneggiata dalla volontà razionale”. Infatti, quando ci assale l’angoscia, questa paura senza volto, la paura di cadere che forse è l’unica vera paura, la ragione è come se si annullasse. Ma la paura di cadere va deletteralizzata, diventando così paura di lasciarsi andare, di “cadere” nonostante il desiderio di farlo. Allora l’angoscia ovvero Ananke, bisogna farla semplicemente entrare, lasciarla passare perché è questa la sua necessità. Ma che c’entra alla fine Pan con Ananke? Innanzitutto questa dea della necessità e dell’angoscia non aveva volto e per questo la possiamo immaginare con qualsiasi volto, anche quello di Pan. Perché questo esprime la natura animale dell’uomo, ma anche che l’uomo è pura natura e quindi anche nell’uomo troviamo le eruzione vulcaniche, gli attacchi e i tifoni distruttivi, il lanciare le saette, i terremoti, ecc. Dice Hillman:”Pan e le ninfe, tengono insieme natura e psiche. Essi dicono che gli eventi istintuali sono riflessi nell’anima. Ogni istruzione, ogni religione, ogni terapia che non riconosca l’identità di anima e istinto quale è presentata da Pan e le ninfe, preferendo un lato all’altro, insulta Pan e non guarisce”. In altre parole, bisogna stare attenti a separare il proprio raziocinio dalla parte istintuale. Allora Ananke rappresenterebbe la necessità insita nella natura (Pan) umana di esprimersi sia a livello istintuale che psichico e quando questo non lo permettiamo Pan ci viene a trovare facendoci provare angoscia (Ananke). Insomma quando ci preoccupiamo di essere solo “bravi” e non anche“cattivi”, quando anziché riconoscere i nostri bisogni e desideri più autentici, ci preoccupiamo di costruire un immagine di noi che non ci appartiene! Allora, il sintomo dell’attacco di panico che irrompe nella nostra razionalità e ragionevolezza, ci fa sentire quell’angoscia che non abbiamo invece sentito per aver perso parte della nostra animalità e spontaneità. Come a dire che Pan ce la restituisce per tornare naturalmente noi stessi con la nostra spontaneità. Pan, nonostante fosse una divinità, morì e qualcuno disse che con lui morì la natura. Nel concludere, mi sono ricordato che all’inizio della mia attività, ad una persona che mi chiese perché avesse attacchi di panico risposi che ce l’aveva perché forse lui non faceva abbastanza “il panico” . All’epoca diedi questa risposta senza pensare, della serie: la risposta è già nella domanda! P.S: Oggi comunque, l’attacco di panico ha subìto delle trasformazioni e spesso non viene diagnosticato perché si è in qualche modo ”diluito” cioè ha assunto delle manifestazioni sintomatiche più simili all’ansia generalizzata, fobie, all’ipocondria,ecc.
Dott. Marco Franceschini

Sui sogni.

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Forse lo scopo dei sogni è di immergere l’Io del sognatore nel mondo infero, della morte,ovvero morte per il nostro consueto e convenzionale senso della vita. Per Hillman, il sogno diventa “l’occasione per apprendere notizie sui mondi interiori, sulle persone che si muovono nell’anima, sui personaggi dell’immaginazione, sulle storie e i temi che esprimono i cicli del destino, dell’umore e dell’esperienza”. I sogni dunque avrebbero lo scopo di liberare l’anima…a prepararci ad una “vita piena d’anima”…

Dott. Marco Franceschini

Sogno e realtà. Una questione di confine?

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Vorrei tentare di abbozzare una risposta al seguente quesito: chi stabilisce il confine tra sogno e realtà? Mi rendo conto che ogni risposta, ammesso sia possibile rispondere, riflette l’equazione personale ed epistemologica di ognuno di noi. Non ho la pretesa di rispondere, semmai di lanciare un sassolino in uno stagno che vedo come un oceano. Innanzitutto il confine viene stabilito dalla nostra capacità di movimento psichico che ci consente di avere una prospettiva mercuriale e non dicotomica della vita e dell’universo. In questo senso l’archetipo funzionale sarebbe Ermes. Per esempio, l’epistemologia occidentale distingue due forme dell’essere e del conoscere, due mondi: il mondo sensibile (fisico e materiale) e il mondo intellegibile (la conoscenza intellettuale, se così si può dire), insomma, un pensiero dicotomico e polare, fatto di opposti. Sappiamo che gran parte del pensiero junghiano, ruota intorno a questa visione di opposti. Ma vorrei spingermi oltre, perché secondo me, questa visione pone un serio problema, ossia, come mettere in relazione queste due forme o universi? A tal proposito ci viene in aiuto la filosofia persiana con il terzo universo o forma del conoscere, ovvero il mundus imaginalis, il mondo immaginale e dei corpi sottili, dove è vero, manca la fisicità ma è pur sempre presente una forma. Riassumendo abbiamo: 1) una forma sensibile, percepibile con i cinque sensi; 2) una forma intellegibile, percepibile con il pensiero; 3) forma immaginale che mette in relazione le prime due. Questo mondo immaginale, intermedio rappresenta in qualche modo un universo di corrispondenze (aventi una figura, un colore, estensione, profumo, risonanza) quindi fatto ad immagine e somiglianza del mondo fisico che però non rientra nella fisica pura, non hanno fisicità, ma allo stesso tempo differente dal mondo intellegibile puro, fatto di concetti e non di forme, mentre nel mondo immaginale è come se fossimo in quel confine dove le forme intellegibili prendono corpo e forma, laddove allo stesso tempo le forme sensibili perdono il loro peso dato dalla fisicità, si spiritualizzano, pura materia senza il fisico. Questo mondo noi lo viviamo anche nei sogni, soprattutto durante la fare R.E.M. Ovviamente parlare del mundus imaginalis vuol dire parlare di tutte le immagini archetipiche e mitologiche che solo attraverso la cosiddetta “immaginazione attiva” si possono vedere in relazione tra loro. Per comprendere questo bisognerebbe com-prendere il significato del ta’wil che nella filosofia sufista persiana vuol dire: ricondurre qualsiasi cosa alla sua origine, in altre parole al suo archetipo. Allora, con lo spirito del Ta’wil, dove ogni immagine può essere ricondotta alla sua fonte, nel mondo di Hurqalya, potremmo far risalire questa visione dicotomica, SOGNO O REALTA’, nel mundus imaginalis, dove il “corpo si spiritualizza” e allo stesso tempo “lo spirito prende corpo”, così da liberare l’uomo stesso dall’egemonia della visione polare e dicotomica dell’Io, riunendola in una sigizia? Da questa premessa epistemologica, ritengo che il confine tra sogno e realtà lo stabilisce Ermes (da erma, le pietre miliari che segnavano i confini delle strade) ovvero la nostra capacità immaginativa attraverso la quale potremmo essere in grado di riconoscere che la realtà della vita diurna non è affatto più reale di quella notturna. Ermes si muoveva con disinvoltura tra il mondo celeste e divino, e quello infero, attraversando quello terreno. E’ come chiedersi se è più reale il giorno o la notte e cercare di tracciarne il confine. La notte oscura per l’anima, la possiamo vivere anche durante il giorno e al contempo immergersi in immagini solari di notte!! Inoltre, chi può dimostrare che la psiche/anima appartiene all’uomo? Personalmente, tale convinzione mi sembra una forzatura e presunzione da parte dell’uomo occidentale che manipola la natura a sua “immagine e somiglianza”. No, è l’uomo che appartiene alla psiche/anima, così come vi appartengono le piante, gli animali, le acque, ecc. Allora potremmo forse dire che l’anima/psiche vive la propria realtà nei sogni sotto forma immaginale, ma si materializza nella vita diurna, e nella concretezza di quest’ultima. Allo stesso modo, l’Io del sognatore che vive nello spazio-tempo diurno si dissolve nel sogno per vivere nella realtà dell’anima…

Dott. Marco Franceschini

Il fuoco che brucia il fuoco.

Molti analizzandi e/o pazienti chiedono al loro terapeuta consigli su cosa fare per evitare di soffrire. Ma molto spesso le rispos11051900_10206011519998581_3896457631540981943_nte che vengono date dall’analista e/o dallo psicoterapeuta, sono difficili da accettare. Come scrive la M.L. Von Franz, rifacendosi al pensiero degli antichi alchimisti: ”La risposta è che il fuoco deve bruciare il fuoco”, cioè a dire che bisogna bruciarsi nel proprio fuoco ovvero nelle proprie emozioni, fintanto che queste diventano meno forti e quindi più accettabili. Ciò non può essere evitato. Non a caso il fuoco veniva usato per disinfettare; così come il corpo che alza la temperatura per tentare di uccidere un virus. Così, dobbiamo sopportare il fuoco, affinché questo non abbia neutralizzato le impurità. Occorre sopportare la sofferenza finché: “La non-conoscenza o l’umidità corruttibile sia stata consumata tutta dal fuoco”. Allora, chiedere all’analista o ad altri di risparmiarci la sofferenza con qualche tecnica innovativa, è, come afferma sempre la Von Franz: “infantile e non serve a nulla….Adottare nei confronti del paziente un atteggiamento banalmente consolatorio è un errore, perché in tal modo lo si allontana dal calore bruciante, dal luogo dove si sviluppa il processo individuativo”… e di crescita.

Dott. Marco Franceschini