Psicoterapia breve

Psicoterapia breve

La Psicoterapia breve è indicata in tutti quei casi in cui la persona manifesta dei sintomi che sono insorti in seguito ad un evento o più eventi percepiti come stressanti. Oppure quando i vari sintomi possono essere riconducibili a dei cambiamenti che la persona si appresta ad affrontare. Ad esempio in caso di trasloco; separazione coniugale e/o di fatto; conflitti di coppia o con i figli; lutto; perdita del lavoro e molte altre circostanze che comunque attivano nella persona un “corteo di sintomi”,  psichici, relazionali, psicosomatici. La psicoterapia breve  si occupa da una parte, di eliminare i sintomi e i comportamenti fonte di sofferenza, o comunque di aiutare la persona a trovare nuove strategie per gestire il sintomo, dall’altra di produrre un cambiamento nelle modalità attraverso le quali una persona costruisce la propria realtà personale e interpersonale. Nell’ambito della psicoterapia breve, ma non solo, viene data più enfasi sui concetti di “funzionalità” o “disfunzionalità”. Si tratta di comprendere  come il problema funziona nel presente e su quali strategie siano più adatte a creare un cambiamento efficace e duraturo. Per raggiungere questo risultato nella maniera più rapida ed efficiente possibile, l’intervento si discosta dal modello psicoanalitico tradizionale, in quanto  è di tipo attivo perché ha come scopo quello di produrre nel giro di pochi mesi, risultati tangibili.

Dott. Marco Franceschini

 

Psicoterapia familiare

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La terapia familiare, in via generale,  si prefigge di affrontare il disagio familiare e l’eventuale risoluzione in tempi brevi. Spesso il disagio viene percepito o può riguardare un solo membro del nucleo familiare, ma ciò è sufficiente a mettere in crisi l’intero sistema, questo perché la famiglia in quanto sistema, appunto, risponde alle leggi derivanti dalla teoria dei sistemi complessi.

Le difficoltà familiari che si possono esprimere con diverse modalità: sintomi psichici, comportamentali, somatici di un componente, disagio familiare o/e elevata conflittualità e segnalano problematiche  all’interno del  nucleo che richiedono un intervento che abbia diverse finalità. Per esempio, potrebbe avere lo scopo di aiutare la famiglia  a superare il disagio che sta sperimentando, per ritrovare un nuovo equilibrio e una percezione di benessere.

Nella psicoterapia familiare si mette in luce, tra le altre cose, il fatto che una famiglia ha un suo ciclo vitale e che in quanto sistema non può non affrontare crisi evolutive che di per se sono tutt’altro che negative. Tali crisi evolutive mettono a dura prova lo spirito di adattamento dei vari membri della famiglia, adattamento indispensabile alla crescita individuale di ciascun membro. In questo senso si cerca di aiutare i vari membri a prendere coscienza dei loro atteggiamenti di fronte a temi come: adattabilità alle circostanze mutevoli; flessibilità; autonomia e indipendenza.

  • Inoltre, è di fondamentale importanza lavorare su: lo stile comunicativo che caratterizza quella specifica famiglia;
  • Conoscenza e/o consapevolezza dei ruoli familiari e di come vengono agiti;
  • Conoscenza e riconoscimento dei propri confini psichici e fisici.

Scopo ultimo, è quello di acquisire nuovi strumenti psichici, per gestire al meglio le difficoltà e/o crisi evolutive che la famiglia non può non incontrare nel corso del suo ciclo vitale.

 

Psicoterapia di gruppo

Psicoterapia gruppo

Psicoterapia Di Gruppo

La psicoterapia di gruppo sfrutta le interazioni tra i partecipanti ed è quindi caratterizzata da una maggiore dinamicità . Inoltre nel gruppo sono possibili tecniche di intervento più varie, ad esempio si possono giocare i diversi ruoli. Nell’ambito della psicoterapia di gruppo, è più forte il gioco delle identificazioni e delle proiezioni (cioè, si tratta di vedere negli altri aspetti non riconosciuti di noi stessi, in un rapporto a volte positivo e a volte di rifiuto) e in genere l’attivazione nel qui ed ora delle risposte difensive dei pazienti sulle quali il terapeuta può intervenire direttamente, mettendo in luce l’atteggiamento inconsapevole del soggetto rispetto a certi contenuti psichici. Le emozioni si diffondono istantaneamente in una sorta di “effetto domino”.

Psicodramma Analitico-Junghiano

Nel gruppo, dopo una fase iniziale di “riscaldamento”, necessaria per instaurare la conoscenza e la fiducia tra i partecipanti, vengono messe in scena esperienze di vita, sogni, conflitti interiori, desideri, bisogni, traumi. Attraverso la figura del “doppio” (che è in genere il terapeuta) ogni membro del gruppo avrà l’opportunità di prendere consapevolezza del proprio vissuto interiore, attraverso l’espressione delle emozioni, spesso rimosse, incistate, causando così disagio e anche malattie. E mentre il “doppio” fa da ponte tra la coscienza e l’inconscio, detto in termini junghiani, tra l’Io della persona e la propria Ombra, il cambio di ruolo, invece, determina la presa di coscienza, del mondo al di fuori di noi ovvero avere una migliore consapevolezza e capacità di vedere come l’altro percepisce vive i nostri atteggiamenti e stati d’animo. Nella parte finale della sessione di gruppo, ogni membro del gruppo avrà la possibilità di esprimere il proprio vissuto rispetto agli immaginari emersi, così che questi possano essere analizzati. La differenza sostanziale tra una psicoterapia di gruppo tradizionale e lo “Psicodramma-Analitico”  sta nel fatto che in quest’ultima modalità non ci si limita all’espressione verbale, ma si auspica che le immagini emerse si possano tradurre in azioni. Inoltre, rappresenta uno strumento potente per riuscire a prendere coscienza dello stato d’animo dell’altro, il suo modo di vedere,  cosa alquanto preziosa nella vita di coppia.

Dott. Marco Franceschini

Riflessioni conclusive

Riflessioni conclusive

Quello che il paziente vuole dirci, in parte lo esprime verbalmente, in parte ce lo mostra con la sua pelle. (Prof. R. Bassi)

Penso che si possa ragionevolmente affermare che,  più che parlare di psicosomatica, una parola che lascia innumerevoli dubbi sul suo significato e sulla sua applicabilità, forse è meglio pensare di introdurre nuovamente nella medicina  occidentale anche l’aspetto psicologico dell’individuo. Cercando di abbandonare una visione che mette in opposizione due visioni di una stessa dimensione, l’uomo, e allo stesso tempo imparare a vedere queste due visioni in relazione tra loro e non in opposizione. – Su questo sarebbe d’accordo Hillman, forse un po’ meno Jung, quest’ultimo sottolinea una visione di opposti. Anche perché, secondo il Prof. Bassi,  titolare della cattedra di Psicosomatica all’Università di Ferrara, noto dermatologo e primario dell’Ospedale civile di Venezia: “non esiste nessuna malattia puramente organica, come non esiste una malattia puramente psicogena. Esistono malati la cui patologia è prevalentemente psicogenetica, altri in cui essa è prevalentemente organogenetica. Un Herpes simplex può manifestarsi dopo un’esposizione prolungata alle radiazioni solari, in seguito a eccessi alimentari o in seguito a traumi psichici”. Per questo, ritengo che l’approccio psicosomatico, al di là delle teorie e dei risultati delle ricerche scientifiche, dipende esclusivamente dal medico o dallo psicoanalista. Se il medico sarà interessato alla sfera psicologica-relazionale-evolutiva-familiare del proprio paziente, allora il suo approccio diverrà in modo naturale psicosomatico, o comunque bio-psico-sociale. Quindi, il campo di applicazione di un approccio psicosomatico dipende esclusivamente dalla visione soggettiva del medico.

 

Dott. Marco Franceschini

Il modello Bio Psico Sociale

Bio psico sociale

 

Il  modello bio-psico-sociale nasce con Engel e i suoi collaboratori, medici e psicoanalisti. In parte prende spunto dalla teoria dei sistemi complessi,   prevede una multi causalità (psichica, biologica e sociale) e una relazione circolare e non lineare dei probabili fattori  eziologici, i quali si rinforzano reciprocamente. Aumenta però la complessità nonché la difficoltà di individuare un punto di inizio. Inoltre non è più sufficiente, secondo questo modello, considerare un solo fattore quale responsabile dell’insorgenza della sintomatologia. Anche le scuole psicoanalitiche internazionali tendono ad aderire al modello bio-psico-sociale, partendo dai contributi di Bion e Fonagy. Secondo questo modello – presentato ufficialmente in un convegno tenuto in Italia (Orvieto) nel 2000, modello che tra l’altro è stato recepito all’interno dell’Organizzazione mondiale della sanità – la definizione di salute non prevede più l’assenza della malattia (inevitabile), piuttosto il raggiungimento di un certo grado di benessere raggiungibile che prescinde dall’essere malati. In effetti ci sono malati gravi che però hanno una percezione di benessere maggiore rispetto ad individui con malattie molto meno invalidanti.

In passato si parlava di psicosomatica riferendosi ad essa solo in relazione a quelle malattie organiche la cui causa era rimasta oscura e per le quali (quasi per esclusione) si pensava potesse esistere una genesi psicologica. Oggi al contrario si parla non solo di psicosomatica, ma di un’ottica psicosomatica corrispondente ad una concezione della medicina che guarda all’uomo come ad un tutto unitario , dove la malattia si manifesta a livello organico come sintomo e a livello psicologico come disagio, e che presta attenzione non solo alla manifestazione fisiologica della malattia, ma anche all’aspetto emotivo che l’accompagna. Secondo quest’ottica è possibile distinguere malattie per le quali i fattori biologici, tossico-infettivi, traumatici o genetici hanno un ruolo preponderante e malattie per le quali i fattori psico-sociali, sotto forma di emozioni e di conflitti attuali o remoti, sono determinanti. In questo senso l’unità psicosomatica dell’uomo non viene persa di vista e i sintomi o i fenomeni patologici vengono indagati in modo complementare da un punto di vista psicologico e fisiologico. Si parla di psicosomatica non solo come prospettiva con la quale guardare l’evento patologico, ma anche in relazione a sintomi somatici fortemente connessi alle emozioni e in relazione alle cosiddette vere e proprie malattie psicosomatiche. Per quanto riguarda i sintomi psicosomatici , essi, pur non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress. Al contrario, sono considerate vere e proprie malattie psicosomatiche quelle malattie alle quali classicamente si riconosce una genesi psicologica (o quantomeno in buona parte psicologica) ed in cui si viene a realizzare un vero e proprio stato di malattia d’organo con segni indiscutibili di lesione”. Secondo questa visione, a prescindere dal tipo di malattia l’approccio psicosomatico, ovvero la visione cosiddetta olistica dell’uomo non viene mai meno. In questo senso allora, secondo l’approccio di Barbini, ogni malattia rivela qualcosa della particolare modalità-relazionale che il paziente intrattiene con l’ambiente. Questo approccio mi sembra vicino alla visione epistemologica del corpo proposta da Galimberti. Ma Come si spiega l’insorgere del sintomo o della malattia psicosomatica? Secondo Il Dott. Barbini (esperto nel trattamento del dolore cronico benigno), esistono molti modelli interpretativi che cercano di spiegare l’insorgenza del sintomo o della malattia psicosomatica. Si può affermare che le malattie somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo. In queste malattie, l’ansia, la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere vissute e sentite, trovano una via di scarico immediata nel soma (il disturbo); non sono presenti espressioni simboliche capaci di “mentalizzare” il disagio psicologico e le emozioni, pur essendo presenti, non vengono percepite. In genere il paziente psicosomatico si presenta con un buon adattamento alla realtà, con un pensiero sempre ricco di fatti e di cose e povero in emozioni. Per meglio chiarire si tratta di un paziente che difficilmente riferisce sentimenti quali rabbia, paura, delusione, scontentezza, insoddisfazione. Spesso si tratta di pazienti che hanno difficoltà a far venire alla luce emozioni , che separano dalle cose ogni elemento di fantasia . Tutte le loro capacità difensive tendono a tener lontani contenuti psichici inaccettabili, a costo di distruggere il proprio corpo . In questo senso una persona, incapace di accedere al suo mondo emotivo, potrebbe non percepire rabbia, frustrazione o stress per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la sua ulcera e le emozioni o i vissuti relativi al suo lavoro. Anche se tali caratteristiche non sono sempre presenti in assoluto in quelli che presentano una patologia psicosomatica, sembra comunque permanga sempre in queste persone una parte dell’Io che tende a funzionare in questo modo .

Schema riassuntivo proposto dall’equipe del Dott. Barbini

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Dott. Marco Franceschini

 

Cosa significa guarire

Cosa vuol dire guarire

“Liberata da ogni connotazione di cattiveria e crudeltà, la malattia appare come lo strumento scelto dall’anima, per segnalare uno smarrimento, per impedire di cadere in errori più gravi e per ricondurci sul cammino della verità, dal quale non ci si sarebbe mai dovuti allontanare”.

Edward Bach (Conferenza tenuta nel 1931 a Southport)  

Guarire significa ricorrere in modo sistematico ai processi di autoguarigione, sia per mezzo dell’adattamento inconscio, sia per mezzo della malattia, che fa prendere coscienza della soluzione interiore e attiva la volontà e il cambiamento nell’essere umano. Godere di buona salute vuol dire possedere un potenziale di autoguarigione. Malattia, in francese si può scrivere anche: “mal a dit” (male ha detto). Quando la malattia tac, vuol dire che è stato integrato interiormente quello che aveva da dire, comunicare, per cui si è guariti. Quando c’è un’epidemia di influenza, non tutti si ammalano, infatti moltissime persone resistono. Molte persone sieropositive non sviluppano la malattia. Ciò che vale per un’influenza, dunque, perché non dovrebbe valere anche per l’Aids? Oggi pensiamo: tanto c’è il vaccino! Ovvero, si preferisce non vedere! Ma perché? Per paura? Paura di cosa? Forse abbiamo paura di stare meglio. Infatti, per stare meglio, bisogna cambiare. Si cambiare la modalità di funzionamento che ha condotto allo stato d’animo attuale e alla malattia, che è apparsa per ripetere: “il male ha detto”. E quei malati di cancro in fase terminale, che dopo dieci anni hanno scritto un libro? Tutti avevano un punto in comune: avevano cambiato la loro vita, modificando radicalmente la loro vecchia e disfunzionale modalità di funzionamento. Ma per la maggior parte delle persone, il cambiamento rappresenta una delle cose più difficili da realizzare, così, al posto delle scelte subentrano lamentele. D’altronde, per cambiare non è sufficiente la sola comprensione intellettuale. E poi, domandiamoci perché, nella maggior parte dei casi, domina la tristezza (o la malinconia) a spese della gioia! Forse perché ci si rifiuta di cambiare?   

 

Marco F. (tratto da: Michel Montaud, medico-chirurgo)

Concetto di salute

Concetto di salute

Alcune riflessioni sul concetto di salute

La malattia è una necessità e la guarigione un obbligo. E’ il funzionamento fisiologico della vita. E’ la normalità.

La salute, corrisponderebbe al funzionamento corretto dell’organismo, della psiche e così via.  Oggi si sta inseguendo un’utopia, quella del benessere, senza un fondamento storico, dal momento che sia la storia dell’umanità sia la storia clinica di qualsiasi individuo, insegnano che la normalità corrisponde alla sofferenza e alla malattia che si alternano a momenti di benessere psico-fisico. Quindi, come collocare questo immaginario del benessere? Sarebbe  più sensato pensare alla sofferenza come standard, piuttosto che associare la normalità alla salute (la normalità deriva dalla statistica!). Inoltre abbiamo confuso ignorantemente il dolore con la sofferenza andando quindi a vedere queste due categorie come indistinte, mentre vi è una profonda differenza e implicazioni epistemologiche e psichiche assai diverse. James Hillman lo chiama “pregiudizio patologico”. Tale pregiudizio sarebbe responsabile di questa confusione generata tra dolore e sofferenza. Secondo questo autore, a causa del pregiudizio patologico: “ Il messaggio che la sofferenza voleva annunciare è cancellato e gli scopi dei nostri dolori psichici non possono arrivare alla coscienza”. Nel nostro approccio prevale si un pregiudizio, ma  un pregiudizio psicologico, dove la premessa è che la malattia vuole ottenere qualcosa.
Dott. Marco Franceschini

Alessitimia e Affetti

Alessitimia e affetti

Negli ultimi decenni, si è assistito ad un interesse crescente nei confronti dello sviluppo e della regolazione degli affetti e dell’impatto che la “disregolazione affettiva” opera sulla salute fisica e mentale. Emozioni, quindi, in quanto fenomeni  che hanno una base biologica, ma anche uno stretto collegamento con l’azione, nel verbo latino emovere significa (far uscire o espellere), in ogni modo la parola emozione evoca il movimento! Da qui non si può non prendere in considerazione il concetto di alessitimia, che rappresenta un insieme di deficit della capacità di elaborare e descrivere le emozioni e sentimenti, una capacità immaginativa gravemente compromessa, uno stile cognitivo piuttosto pragmatico e orientato prevalentemente verso l’esterno, verso la concretezza in modo esclusivo e massiccio. Le persone incapaci di riconoscere, gestire le emozioni e gli affetti (alessitimici) sono costretti a mettere in opera dei mezzi (comportamenti, somatizzazioni, ecc) per arginare la cascata di affetti che altrimenti li inonderebbe (angoscia). “Possiamo vedere questi  affetti come i “servitori silenziosi” dei nostri processi di auto-organizzazione e auto-mantenimento, che si interfacciano in dettaglio sia con il corpo che con la mente, che allo stesso tempo li comprendono olisticamente”Ricordiamo che il termine alessitimia ha cominciato a diffondersi a partire dalla fine degli anni sessanta grazie alle osservazioni effettuate da Sifneos e da Nemiah sullo stile cognitivo e affettivo dei pazienti che presentavano delle malattie psicosomatiche classiche. Essi osservarono in questi pazienti un’incapacità particolare ad identificare e descrivere i sentimenti e le emozioni, un’attività fantasmatica ovvero immaginativa limitata e uno stile cognitivo pragmatico orientato prevalentemente verso l’esterno .

La teoria degli affetti è, in altre parole, lo studio del modo in cui siamo personalmente “affetti” dagli eventi e allo stesso tempo capaci di valutare l’importanza, la portata e il significato per noi degli eventi in termini di elaborazione psichica, pianificazione, adattamento, ecc. Gli affetti potrebbero essere considerati gli “aggettivi” dell’esperienza umana, ciò che la caratterizza ; allo stesso tempo essi riformulano continuamente il significato e la portata dell’esperienza stessa.

L’alessitimia, in quanto deficit dell’elaborazione delle emozioni, getta una nuova luce sul ruolo delle emozioni, degli affetti e dei sentimenti. Moltissime persone sono fortemente alessitimiche, per cui hanno una scarsa capacità di comunicare verbalmente il proprio disagio emotivo, non riuscendo così a farsi aiutare neanche da altre persone. In genere la loro funzione superiore è il “pensiero” e talvolta la funzione inferiore “sentimento” che esordisce in modo bizzarro, oppure negli agiti o nei sogni. La scarsità dell’immaginazione limita inoltre la misura in cui i soggetti alessitimici sono in grado di modulare l’ansia e le altre emozioni mediante la fantasia, i sogni, l’interesse e il gioco.

 

Dott. Marco Franceschini

Cenni storici

Cenni storici

Ma la malattia è anche un simbolo, la rappresentazione di un avvenimento anteriore, il palcoscenico di cui l’Es si serve per rivelare ciò che non può dire attraverso la bocca.                   La malattia – ogni malattia che la si definisca nervosa o somatica, e anche la morte – ha un significato, un senso, proprio come l’atto di suonare il pianoforte. Essa rivela qualcosa sull’Es, in modo più chiaro ed efficace di quanto non potrebbe farlo un’intera vita cosciente: tat tvam asi (tu sei questo). E che strani divertimenti si prende l’Es, il desiderio, l’impulso erotico a muoversi in su e giù, dentro e fuori, deve consumarsi fino a spegnersi, e questo impulso viene simbolizzato nel respiro. E col desiderio si consumano i polmoni, che rappresentano i simboli del concepimento e della nascita, si consuma il corpo, questo simbolo fallico: deve consumarsi, poiché durante la malattia il desiderio s’intensifica, e la colpa non fa che aumentare attraverso la continua dissipazione del seme che si attua simbolicamente nell’espettorazione, perché il desiderio di consumarsi si rinnova continuamente nel tentativo di rimuovere questi simboli che lottano per affiorare a coscienza, perché l’Es mediante la malattia polmonare fa brillare gli occhi e i denti e scatena degli ardenti veleni!”.

 (Groddeck G.,   Il libro dell’Es, Gli Adelphi).